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Il fuoco di S.Nicolò
  Il Fuoco Di San Nicolò a Villafranca Nella Storia e Nella Tradizione
  Il Fuoco Di San Nicolò Nei Racconti Dei Vecchi
  Fuochi: Significato e Storia
Il castello di Malnido
Chiesa di San Nicolò
San Nicolò: storia e leggenda
‘L fógh d’San Niculò


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Il fuoco di San Nicolò

Villafranca in Lunigiana

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.Il Fuoco Di San Nicolò a Villafranca Nella Storia e Nella Tradizione

 

La sera del 5 dicembre, vigilia della ricorrenza della festa di San Nicolò da tempo immemorabile in platea ante ecclesiam Sancti Nicolai de Villafranca gli abitanti di questo luogo usano radunarsi attorno ad un grande fuoco che accendono in onore del santo. Queste poche righe rinvenute tra le carte di un disperso archivio, ci tramandano il ricordo di una tradizione che affonda le radici in tempi remoti e che, a dimostrazione di quanto sia fortemente radicata nell’animo dei villafranchesi, è giunta fino a noi quasi indenne e senza soluzione di continuità, passando attraverso eventi straordinari, quali guerre, pestilenze e carestie, rivolgimenti politici e mutate forme di vita e di pensiero, che, pur nella loro contingente gravità, mai ebbero né la forza né il potere di poterla interrompere.

Un santo, una chiesa e un rito sono dunque gli elementi sui quali si fonda questa antica tradizione: il santo è San Nicolò da Bari, la chiesa è quella a lui dedicata che si trovava a Villafranca ai piedi del Castello malaspiniano di Malnido e il rito è quello del fuoco che si accende ancor oggi, la sera del 5 dicembre, nei pressi del luogo nel quale fino a qualche anno fa sorgeva la chiesa. 

     
 

 

 
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Il Fuoco Di San Nicolò Nei Racconti Dei Vecchi

 

Queste notizie che si riferiscono alla tradizione del falò di San Nicolò di Villafranca , furono raccolte da Germano Cavalli oltre quaranta anni fa dalla viva voce di Lisauro Bazzali (1868 - 1963), e di Placida Rossi in Bragoni (1881 - 1966)

     

L’atmosfera della festa si cominciava a sentire già verso la seconda metà di ottobre quando dopo le prime fiumane, si andava lungo la Magra a “segnare” i ciocchi che la piena aveva sradicato e lasciato sul greto del fiume.a

 Era questa un’operazione che gli addetti ritenevano molto importante poiché dai ciocchi, che poi sarebbero stati opportunamente sistemati alla base della catasta, dipendeva la “durata” del fuoco[1].  Con l’aiuto di un paio di buoi prestati per l’occasione dalle famiglie dei contadini che abitavano nei poderi vicini (Pratola, Colombara, Cavanna, Campomorano, ecc.) i ceppi venivano trasportati dai giovani della parrocchia di San Nicolò nella piccola piazza situata davanti al castello e compresa tra la chiesa e il mulino, luogo questo nel quale certamente più a lungo si svolse la manifestazione villafranchese[2].

 La sistemazione dei ciocchi, che dovevano essere messi in modo da non fare “cannone” per non favorire un tiraggio troppo rapido che avrebbe accelerato la combustione, era un’altra delle operazioni che richiedeva particolare attenzione anche perché, nel contempo, si doveva preparare la “base” che avrebbe dovuto sostenere il palo centrale. 

Per antica consuetudine il palo lo fornivano a turno le possessioni dei Marchesi Malaspina, tutte sottoposte alla parrocchia di San Nicolò, che essendo una decina (Piaggio, Menarola, Narbaré, Pratola, Colombara, Triola, Campomorano, Macchia, Cavanna e Maggiola), dovevano soddisfare questo impegno ogni dieci anni. A questo compito, che per la famiglia che lo doveva assolvere era motivo di considerazione, ci si preparava per tempo cercando nei boschi l’albero più adatto (dal quale sarebbe poi stato ricavato un palo alto e diritto) che da quel momento veniva indicato come ‘l pal d’l fôg d’San Niculò. 

La legna più minuta proveniva in gran parte dalla ripulitura dei boschi e dei castagneti dopo che era stata fatta la raccolta delle castagne e, a spalla, a soma o con le benne, dai boschi di Faitola, della Magnóla, di Scóla e del Mondiso veniva trasportata nella piazza per essere sistemata sui ciocchi fino ad ottenere una catasta a forma di cono alta da 4 a 5 metri, che di giorno in giorno diventava sempre più alta.  

I più vecchi ricordavano i tempi nei quali tutti i parrocchiani partecipavano ai preparativi e mentre gli uomini frugando nelle cantine e nei solai trovavano sempre un cassone da sfare o una vesta di damigiana frusta da sacrificare, le donne, dalle cascine o dalle stalle, portavano una fascina o un vinciglio. 
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Era la festa della parrocchia di San Nicolò, ma l’atmosfera che si respirava si avvertiva in tutta Villafranca e per l’occasione venivano dimenticati gli antichi rancori che dividevano “quelli di San Nicolò” da “quelli di San Giovanni” e da “quelli di San Francesco” perché la tradizione del falò apparteneva a tutta la comunità[3], e anche se quelli di San Giovanni e del Marginello (Cunvént) non prendevano direttamente parte all’organizzazione, era pur vero che la sera del fuoco non perdevano occasione per venirlo a vedere con le loro famiglie 

Con l’approssimarsi della festa cresceva l’animazione. Le campane cominciavano a suonare, di sera, per chiamare i fedeli alla novena, mentre, di giorno, schiere di ragazzi andavano su e giù per il borgo con il cavagno a raccogliere le offerte che consistevano in un pò di farina dolce, qualche formaggio, qualche fiasco di vino e, più raramente, in qualche roccio di salsiccia.

Il peso maggiore dell’organizzazione della festa, comprese le scampanate, lo sparo dei mortaretti e gli accordi con il parroco e con le “compagnie” era sostenuto dalle famiglie che abitavano in fondo al borgo e tra queste soprattutto quella dei Rossi (quella di Didaco, padre di Gesmino, padre a sua volta di un altro Didaco) e che sembra, da tempo immemorabile, godesse del privilegio di assolvere a questo incarico.

Durante la vigilia della festa, che sotto certi aspetti era più festa della festa stessa, si portavano a termine gli ultimi dettagli.  Si stabiliva l’ora dell’accensione che doveva avvenire sempre dopo il tramonto, (in tempi più recenti si aspettava che dalla Spezia arrivasse il treno - operaio per permettere ai molti villafranchesi che lavoravano in Arsenale di poter partecipare alla manifestazione) e si allestiva il baldacchino sul quale sarebbe poi stata collocata la statua di San Nicolò che veniva portata fuori dalla chiesa poco tempo prima dell’accensione e sistemata proprio di fronte al fuoco in modo che lo potesse guardare[4].d

 Ma il momento più atteso e suggestivo era quello in cui il prete, terminate le funzioni dell’ultima novena, accompagnato dal suono delle campane che suonavano a distesa, dai chierici e dai rappresentanti dell’Opera[5] e della Confraternita[6], si recava a benedire il fuoco mentre la gente, tutta intorno, si segnava.  Quello della benedizione era un atto veramente solenne tanto è vero che se il fuoco non era stato prima benedetto per nessun motivo poteva essere acceso. 

Dopo che era stata impartita la benedizione, entrava in scena il capofuoco che era, in fondo, il sacerdote laico della seconda parte della serata. Dopo aver acceso il ramo resinoso di pino che fungeva da torcia e con l’atteggiamento di chi si appresta a celebrare un rito, il capofuoco si avvicinava alla catasta e vi appiccava il fuoco da più parti, mentre i suoi aiutanti, muniti di lunghe pertiche, badavano a che le fiamme non si spandessero e non aggredissero in un baleno i rovi secchi che dovevano bruciare invece con grande crepitio e senza fare fumo. 

La gente attorno al falò sostava fino a notte inoltrata e si contavano sulle dita quelli che, prima o poi, non avevano fatto un salto a vedere il fuoco. Si guardava il fuoco e si parlava del più e del meno, ci si scaldava davanti e si gelava dietro, si facevano i paragoni con quello dell’anno prima e già si pensava a quello dell’anno prossimo mentre i giovani cercavano di incrociare lo sguardo delle ragazze (énbàtérs en ti òci) e i bambini giocavano a rincorrersi attorno al fuoco.

Ad una certa ora tutti rientravano a casa perché bisognava pensare alla festa del giorno dopo e preparare in tempo il desinare per poter partecipare alle funzioni religiose che erano la messa, il vespro e la processione.  Prima rientravano le donne con i ragazzi che erano contenti perché il giorno dopo non sarebbero andati a scuola, e poi gli uomini che prima di andare a letto facevano una sosta da Arnèst per bere un bicchiere di vino e mangiare un pò di salsiccia “benedetta” perché era stata cotta sulle braci del fuoco di San Nicolò.

     

[1]Oltre a cercare di fare il fuoco sempre più bello e sempre più grande di quello dell’anno precedente, un altro elemento che veniva tenuto in grande considerazione era la durata del falò.  Far durare più a lungo il fuoco significava far durare più a lungo la festa e ciò tornava ad onore del gruppo che l’aveva organizzata.  Anche Riccardo Boggi riscontra questi aspetti nel fuoco di Sant’Antonio Abate a Filattiera (17 gennaio) e, d’altro canto, quello della durata sembra essere un elemento importante e ricorrente in tutte le feste del fuoco, elemento che potrebbe essere messo in relazione agli antichi significati di queste cerimonie quando si accendevano i fuochi “per aiutare lo stanco sole invernale a riaccendere la sua luce che pareva morire”, cfr. J.G. Frazer, op. cit., p. 992.

[2]Dopo la demolizione della chiesa (1968) la tradizione del falò si spostò dal sagrato al vicino parco “Tra la cà”.

[3]E ciò, in fondo, non deve stupire, poiché fino alla metà del ‘500, la chiesa di San Nicolò, come unica parrocchiale, rappresentava tutto il paese.

[4]Quando alla fine dell’’800 fu ricostruita e ricoperta di lastre di marmo la facciata della chiesa, ad una altezza di circa tre metri dal fianco del sagrato, furono previste due nicchie simmetriche nelle quali avrebbero dovuto essere esposte le statue di San Nicolò e di Santa Barbara nel giorno della loro ricorrenza (rispettivamente 6 e 4 dicembre). Ma a causa della pericolosità e delle difficoltà che si incontravano nel sistemare le statue, si preferì ritornare, in seguito, al più semplice e tradizionale baldacchino.

[5]L’Opera parrocchiale di San Nicolò fu particolarmente attiva per tutto il corso del XIX secolo (restauri della chiesa, costruzione del campanile, ecc.) e si dimostrò addirittura decisiva in occasione delle dispute giudiziarie sorte in relazione alle richieste di indennizzo per i danni subiti dalla chiesa a causa del passaggio della linea ferroviaria. 
A quel tempo, priore dell’Opera era il Marchese Claudio Malaspina q.m. Scipione.

[6]È la Confraternita del SS. Sacramento della chiesa di San Nicolò, della quale si ha già notizia nel 1556.

     

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Fuochi: Significato e Storia

 

     

“Da tempo immemorabile i contadini di ogni parte d’Europa hanno usato accendere dei falò in certi giorni dell’anno (....) la loro origine si deve cercare in un periodo molto anteriore alla diffusione del Cristianesimo (...). I Sinodi cristiani del secolo VIII tentarono di abolirli in quanto riti pagani”.11 Così il Frazer [1] introduceva al capitolo relativo alle feste del fuoco e alla loro interpretazione che si basava, sostanzialmente, sul confronto di due diverse teorie: quella solare e quella della purificazione.
 Secondo la prima, i fuochi che si accendevano in certi periodi dell’anno avevano la funzione di assicurare la provvista necessaria di luce e di calore per aiutare il sole a risplendere quando la sua luce si affievoliva, mentre per la seconda, le feste del fuoco avevano soprattutto una funzione purificatrice, intesa come momento di rigenerazione ed occasione per distruggere tutte le influenze negative “sia concepite in forme personali come streghe, mostri e demoni, sia in forme impersonali come le malattie, le fatture, le infezioni, la corruzione dell’aria ecc.”.

Attraverso il fuoco, inteso come elemento purificatore, si distruggevano, dunque 02 simbolicamente i dolori e i dispiaceri accumulati durante l’anno e, contemporaneamente, attraverso lo stesso rito, si traevano auspici per il nuovo ciclo che stava per iniziare [2] .

Dall’intensità dei bagliori delle scintille, dalla direzione del fumo, dal crepitio delle bacche di ginepro, dal cantone indicato dal palo durante la sua caduta, si traevano presagi sui raccolti e sulla buona annata delle castagne, sulle epidemie e sulle carestie, sulle inondazioni e sui terremoti, mentre i tizzoni, raccolti il giorno dopo, venivano conservati come preziosi amuleti per essere esposti, insieme all’ulivo benedetto, nelle case, nelle stalle e nei gradili per proteggersi dai fulmini, per tenere lontano il malocchio e per essere sparsi nei campi, con le sementi, durante la semina [3] . 33

La funzione purificatrice e nel contempo augurale che si manifesta e si estrinseca  & attraverso il falò sembra essere, dunque, l’elemento comune e ricorrente a quasi tutte le feste del fuoco e soprattutto a quelle che si svolgono vicino ai periodi solstiziali, siano essi estivi come i fuochi di San Giovanni, oppure invernali, come i natalecci [4], il ciocco [5] , le fasella [6] , i fuochi di Carnevale [7] e come i falò che si accendono in occasione delle ricorrenze delle feste di San Nicolò (6 dicembre), di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) e di San Geminiano (31 gennaio) per citare solo quelli che più da vicino ci interessano.  

     

01 [1] Cfr. J.G. Frazer, Il Ramo d’oro, Universale scientifica Boringhieri, Voll. I e II, Torino, 1973.

22 [2] Questi concetti, che ora ripropongo, e che ebbero come riferimento principale l’opera del Frazer, furono da me già presi in considerazione in occasione di una mia ricerca sui fuochi di carnevale che fu pubblicata nel 1980, nel numero X di Studi lunigianesi.

03[3] Cfr. J.G. Frazer, op. cit., pp. 980 e segg.

04[4] Cfr. A.C. Ambrosi, I Natalecci, in La Garfagnana, 1952.

05[5] Cfr. J.G. Frazer, op. cit., pp. 980 e segg.; cfr.
    Le feste e i canti di questua, in Componimenti di letteratura tradizionale lunigianese, Pacini, Pisa, 1974, p. 197.

06[6] Cfr. Gargiolli, Calendario Lunense per l’anno 1836 e Componimenti, op. cit. p.197.

07[7] Sui fuochi di carnevale e sui Kerlisciari in Lunigiana, si veda : La tradizione del Processo e del Fuoco nel Carnevale pontremolese, Studi Lunigianesi, Vol. X, Villafranca, 1980, p. 159.

     
da: Germano Cavalli:
"Il fuoco di San Nicolò nella storia e nella tradizione"
Quaderni dell'Associazione "Manfredo Giuliani"
 

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